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Testamento del capitano

Eremo S.Salvatore

Dichiarandosi incapace di arte, apprezzava con fervida sensibilità gli artisti e i loro doni. Perciò frequentava il teatro, era cultore di concerti per la grande musica. Ma amò poi e non meno l’altra musica: quella povera e toccante dei canti di montagna, che la sua vita con gli alpini gli aveva lasciato nel sangue e nella gola. Tanto che quando un coro improvvisato di comitive sbandava "assassinando" una delle nostre classiche canzoni, interveniva – come accadde a Varsavia qualche anno fa in mezzo ai suoi giovani – e rimetteva le carte in regola con la sua bella voce intonata.
Questo accenno alla sua "canorità" (un altro, dopo il dialetto e l’infanzia, dei repertori dove si possono attingere i suoi risvolti d’intimità) m’ispira a chiudere allacciandomi proprio, in un’allegoria lazzatiana, a un canto famoso della vecchia guerra che particolarmente gli era caro. È il Testamento del capitano. Dove quel "capitan de la compagnia", ferito a morte, convoca i suoi soldati per lasciare il proprio corpo, diviso in cinque pezzi, agli eredi più amati in vita.
Mi domando come il nostro biondo "capitano" avrebbe parafrasato quella rapsodia se ci avesse avuti tutti intorno. Il primo pezzo l’avrebbe destinato sicuramente a Cristo e alla sua chiesa. Il secondo alla mamma, nella cui spiritualità e indole ebbe a specchiarsi, come accennai, con un attaccamento tutto particolare. Il terzo, direi, all’Italia: al sogno e alla passione di un’Italia finalmente democratica, in una giustizia e in una moralità che sempre lo delusero. Il quarto alla sua università: includendovi tutta la gioventù di cui si fece educatore, ma anche i valori della cultura, i libri, il sapere di cui fu rigoroso e finissimo interprete.
Ma il quinto pezzo sono certo che il "capitano" Lazzati lo lascerebbe a quella casa lassù nell’alta Brianza. San Salvatore, la gemma della sua vita e la compiacenza del suo spirito, perché fra quelle mura, i fratelli di fede convenivano a nutrirsi sotto la sua guida, di preghiera, meditazione e cultura.
Là Giuseppe Lazzati era più totalmente, più liberamente se stesso. Là effondeva i profumati doni di quella "intimità" umana che ho tentato di spremere dalla sua immagine. San Salvatore sopra Erba. Dove una perpetua primavera di lui vogliamo che germogli: perché quei morti, come nella vecchia canzone, "lo fioriscano di rose e fior".

 

da "Il capitan della compagnia" di Luigi Santucci; il testo integrale è stato pubblicato in "Giuseppe Lazzati: vivere da laico" - Armando Oberti (a cura) - Editrice AVE